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Alzheimer, per la diagnosi precoce arriva l’algoritmo basato sull’intelligenza artificiale

Allo stato attuale della ricerca, non esiste ancora una cura per la malattia di Alzheimer. Tuttavia una diagnosi precoce può consentire ai farmaci di gestirne i sintomi e rallentarne la progressione. La risonanza magnetica funzionale (fMRI) è una tecnica diagnostica non invasiva: nonostante i suoi vantaggi, non è stata ancora ampiamente utilizzata nella diagnosi clinica. In primis, perché i cambiamenti nei segnali fMRI sono così piccoli da essere eccessivamente suscettibili al rumore; e, in secondo luogo, i dati fMRI sono complessi da analizzare. Ed è qui che entrano in gioco gli scienziati della Texas Tech University i quali, come spiega un recente studio pubblicato sul “Journal of Medical Imaging“, hanno utilizzato algoritmi di apprendimento automatico per classificare i dati fMRI, sviluppando un tipo di “calcolo” di apprendimento profondo noto come rete neurale convoluzionale (CNN) in grado di differenziare, tra loro, i segnali fMRI di persone sane, con quelli provenienti da persone con deterioramento cognitivo lieve o affette da Alzheimer.

Il team di scienziati americani ha sviluppato un’architettura CNN capace di gestire in modo appropriato tali dati con passaggi di pre-elaborazione minimi: i primi due livelli della rete si concentrano sull’estrazione di caratteristiche dai dati esclusivamente sulla base di modifiche temporali, senza riguardo per le proprietà strutturali 3D. Quindi, i tre livelli successivi estraggono le caratteristiche spaziali su scale diverse dalle caratteristiche temporali precedentemente estratte. Ciò produce una serie di caratteristiche spaziotemporali che gli strati finali utilizzano per classificare i dati fMRI di input da un soggetto sano, uno con decadimento cognitivo lieve precoce o tardivo o uno con Alzheimer.

“Le CNN di apprendimento profondo potrebbero essere utilizzate per estrarre biomarcatori funzionali correlati all’Alzheimer, che potrebbero essere utili nella diagnosi precoce della demenza correlata alla malattia”, ha spiegato Harshit Parmar, autore principale dello studio. Se i risultati reggono per set di dati più grandi, le loro implicazioni cliniche potrebbero essere di ampia portata.

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