Comprendere in che modo i singoli alimenti possono interagire con il microbioma e con quali effetti. L’obiettivo è ambizioso. Un primo tassello di questo lavoro viene dai risultati di una ricerca condotta dal Dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata – Cibio dell’Università di Trento. Sotto la lente d’indagine finisce il caffè, una bevanda amata e bevuta da molte persone, anche con una certa regolarità. Ebbene, quello che è emerso è che dal microbioma si può desumere, con un’accuratezza che supera il 95 per cento, se un individuo beve il caffè oppure no. Questo grazie alla presenza di un particolare batterio, chiamato Lawsonibacter asaccharolyticus.
L’aspetto interessante di questo lavoro è la potenziale opportunità di individuare e analizzare le conseguenze di singoli cibi su determinati batteri.
Il primo autore dello studio è Paolo Manghi, ricercatore al Dipartimento Cibio dell’Università di Trento. Hanno partecipato studiosi e studiose del Dipartimento Cibio e dell’Università di Harvard, oltre a diversi enti di ricerca europei e statunitensi. A coordinare il gruppo è stato Nicola Segata, professore di Genetica e responsabile del laboratorio di metagenomica computazionale del Dipartimento Cibio.
Per questa ricerca sono stati analizzati i dati di oltre 22mila soggetti. È stata riscontrata un’evidente relazione tra il consumo di caffè e il microbioma intestinale, determinata dalla presenza del batterio Lawsonibacter asaccharolyticus, che è in media dalle sei alle otto volte più abbondante in chi beve caffè abitualmente rispetto a chi non lo assume.
Fonte news: Università di Trento (clicca per saperne di più)